“L’artista è qualcuno che osa dire quello che c’è nel cuore di tutti, ma non tutti possono dire”. Ecco la spoken word revolution di Marc Kelly Smith

Intervista esclusiva al fondatore del Poetry Slam. Il grande poeta americano sta attraversando l’Italia, dove le performance poetiche da lui ideate negli anni Ottanta negli Stati Uniti sono sempre più diffuse

06 Maggio 2014
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Marc Kelly Smith

“Se senti nel tuo cuore che il tuo destino è comunicare qualcosa, attraverso la poesia, non perdere tempo. Scendi in piazza e cogli l’attimo”. Ecco il messaggio che Marc Kelly Smith manda ai giovani poeti, a chi si avvicina alla poesia. Ma anche ai poeti più vissuti, che devono iniziare a far vivere i propri versi. Questo è l’insegnamento che sta alla base del Poetry Slam, fondato nel 1986 e lanciato pubblicamente nel 1987 (anche se la prima idea risale al 1984) dal grande poeta e performer americano, a Chicago. Lo abbiamo incontrato a metà del suo tour italiano, al Teatro Binario 7 di Monza, mentre si stava disputando sabato sera la finale nazionale del campionato italiano di Poetry Slam. “Slampapi”, come è soprannominato, è entusiasta di come la poesia sia cresciuta nel nostro Paese.

E così la prima domanda non poteva che essere: What do you think about italian championship of Poetry Slam?/Cosa ne pensa del campionato italiano di Petry Slam?

Tonight is very wonderful. Stasera è veramente meraviglioso. Tanti stili differenti a confronti, soggetti così diversi. E l’ultimo eMCee (Dome Bulfaro, ndr) sta facendo un bel lavoro. Tra il pubblico ci sono persone giovani, persone più anziane, insomma c’è molta varietà, e tutti sono catturati da questo spettacolo.

È soddisfatto quindi di come in Italia i suoi insegnamenti vengono portati avanti? Il nostro Paese ha scoperto lo slam in ritardo, e solo grazie a Lello Voce, altrimenti… 

Oh sì, anche parlando con gli organizzatori di questo campionato problemi che ci sono, si vede che ci sono le stesse questioni da risolvere che abbiamo noi negli Stati Uniti. È bello vedere persone che portano una nuova poesia, perché il Poetry Slam è uno spettacolo che cambia a seconda delle esigenze, della situazione, della comunità, della collettività in cui viene sviluppato. E quindi se c’è qualche differenza con gli Stati Uniti è normale.

Quali sono queste differenze?

Molti usano leggere i propri testi, ma essere troppo legati al testo ed avere il testo in mano blocca il flusso della performance. Nel momento in cui riesce a staccarsi dal proprio testo, il performer scopre di avere davanti un nuovo mondo, come nella musica. Come la differenza che c’è tra un musicista che legge lo spartito e uno che, come i jazzisti, sanno improvvisare e creare qualcosa di nuovo. Ci sono alcuni slam in cui c’è un lavoro d’equipe, dove ci sono duetti, oppure trii oppure un vero lavoro di gruppo.

I poeti italiani sono “conservatori”, in un certo senso, quindi?

Non conoscendo la lingua nonlo  posso dire, ma la musicalità nello spoken in italiano è qualcosa di positivo, più evidente rispetto allo spoken in americano, legato ad una parola meno musicale.

Domanda scontata, ma dovuta: come nasce il Poetry Slam? Quando le è venuta l’idea?

Nel 1984 ho iniziato a pensare a questo. Sapevo che c’era sicuramente un’altra modalità rispetto al reading tradizionale, sia per esprimere di più che per non far annoiare le persone. È qualcosa che è nato facendolo, mettendolo in pratica, non a tavolino. Questo è qualcosa che è nato con me, ma anche grazie alle persone che hanno lavorato e collaborato con me. E tra loro aveva più successo chi riusciva a far “esplodere” il locale, a scatenare una reazione maggiore. Come tutti i performer, i poeti negli Stati Uniti hanno una formazione legata alla danza ed al teatro per poter mettere insieme tutte queste capacità.

Ci sono state resistenze dagli ambienti accademici?

Some resistance?

Sbuffa ironico.

Non mi interessano, il mondo tradizionale della poesia vedeva dieci persone di media come pubblico alle serate, mentre alle mie ce n’eranno cento, mille. Inoltre anche i perfomer che hanno pubblicato dei libri continuano a venderne di più rispetto ai poeti tradizionali. Questa è la spoken word revolution. I poeti performer nelle antologie più importanti hanno venduto seimila copie, molte di più rispetto a quelle di poesia tradizionali.

C’è un poeta che ha influenzato maggiormente la sua formazione? Un protoslammer?

Quando avevo 21 anni, in Carolina del Sud, ho incontrato in Università il poeta russo Evtushenko. Ha recitato davanti a duemila persone e mi ha fatto capire che era quello che volevo fare. L’idea è che l’arte cambia la vita delle persone, non è solo qualcosa di astratto.

In quale Paese la poesia ha uno sbocco professionale?

Sicuramente la Germania, dove i maggiore slammer tedeschi vengono chiamati in performance organizzate, e vengono pagati bene. In Svizzera c’è una situazione simile. Negli Stati Uniti e in Canada i maggiori performer riescono a vivere di questa arte. Negli Stati Uniti sono circa duecento.

L’importanza della metrica in poesia?

È molto importante la musicalità dei versi, ma io amo la varietà dei versi, la varietà delle poesie.

Un messaggio che lancerebbe ad un giovane poeta?

Se senti nel cuore che hai un destino di comunicare, tu hai bisogno di comunicare e devi farlo. Non aspettare, cogli l’attimo scendi in piazza, segui il tuo cuore, esprimiti. E soprattutto, leggi, leggi, leggi, leggi.

L’importanza della poesia civile nello slam?

Ci sono slam totalmente politici molto importanti. Ma è più importante comunicare tra di noi che rappresentare un movimento politico, perché se no perdi le sfumature della comunicazione. La poesia apre a diverse generazione e diversi stili, non chiude e rappresenta tutto il mondo.

Marc Kelly Smith è poi venuto a Varese, il 5 maggio, per una lunga giornata all’insegna della poesia. Ha esordito al Liceo Manzoni, la mattina, portando la sua poesia e facendo conoscere lo slam agli studenti.

La sera invece al Twiggy. Nella sua giornata varesina è stato accompagnato dall’editrice Ombretta Diaferia e dai poeti varesini Sandro Sardella e Antonella Visconti. In serata ha ricordato come “l’artista è qualcuno che osa dire quello che c’è nel cuore di tutti, ma non tutti possono dire”. E sul modo di fare poesia ha aggiunto alcune precisazioni. “Il performer è chi usa anche il corpo e la voce. I poeti che abbiamo rispettato per secoli sono quelli che hanno saputo dare voce a qualcosa che avevano dentro e lo hanno fatto ad alta voce”.

Questo l’insegnamento del grande poeta.

Marco Tavazzi

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