Porte aperte al centro culturale islamico di Varese, in via eccezionale, per trovare l’appoggio necessario per realizzare una nuova sede. La comunità musulmana varesina infatti non si è data per vinta nonostante il susseguirsi di porte sbarrate nel lungo e difficoltoso dialogo con l’amministrazione comunale: la maggioranza è contraria alla realizzazione di una nuova “moschea”, che formalmente potrà essere classificata solo come centro culturale, ma la sede attuale in via Giusti, una traversa di viale Borri, è diventata troppo piccola e limitante per accogliere il gran numero di fedeli che ormai vive in città e nei paesi vicini.
Così gli islamici invece di andare a presentare quello che fanno all’esterno hanno pensato di invitare in “casa” loro gli esponenti del consiglio comunale, dei sindacati e delle associazioni che si sono dimostrati più aperti alle loro istanze. Tutti hanno aderito con piacere. Venerdì alle 18 in punto si sono tolti le scarpe per entrare nella sala della preghiera di via Giusti Rocco Cordì, consigliere di Sel, Andrea Civati e Luisa Oprandi del Pd. Quest’ultima, come le altre invitate, si è coperta il capo con il velo. Presenti inoltre i dirigenti provinciali dei sindacati confederali Cgil Cisl e Uil, delle Acli e delle associazioni locali che sostengono l’attività della comunità islamica.
All’interno è stato allestito per loro un banchetto e servito ai presenti l’originale tè marocchino, preparato sul posto con il metodo tradizionale. Un contesto conviviale e formale al contempo, per dimostrare accoglienza e rispetto agli ospiti inediti ma rimarcare il rispetto necessario per quel luogo di preghiera. “Con l’aumentare delle persone il centro è arrivato a saturarsi – hanno spiegato i giovani attivi della comunità – le richieste sono tante, vorremmo fare attività diverse e utili ma non possiamo perché questo posto è fisicamente limitato. Quando i nostri genitori sono arrivati qui dovevano preoccuparsi di cavarsela, di trovare un lavoro, imparare la lingua, le regole della vita comune. Noi della seconda generazione siamo nati e cresciuti qui, vorremmo abbattere la parte di muro che è rimasta e integrarci al meglio”.
Durante la visita sono state presentate le tante attività del centro islamico. Si tiene il corso di lingua araba per i bambini, perché i musulmani mandano i loro figli nelle scuole varesine dove si parla italiano ma non vogliono che la loro cultura d’origine vada perduta. Dall’altra parte, tengono dei corsi per aiutare i membri della comunità a vivere al meglio la realtà varesina: si svolge un vero e proprio corso di etica attraverso l’educazione civica e lo studio delle normative vigenti, in materia di tasse e di legalità in genere, per comportarsi rispettando il prossimo. C’è addirittura un breve corso sulla raccolta differenziata, e uno sul codice della strada che prevede un focus sulla compilazione della constatazione amichevole. “È un piccolo ma significativo esempio di una procedura che sembra scontata – spiegano – invece non è facile per chi non ha dimestichezza con l’italiano o con l’inglese, soprattutto con la tensione che si prova in caso di sinistro”.
Insomma, si sentono varesini “d’importazione” ma vorrebbero diventare varesini d’adozione. “Il punto è proprio questo – spiega Giorgio Stabilini, varesino convertito anni fa e oggi uno dei principali rappresentanti della comunità – siamo o non siamo cittadini di Varese? Se lo siamo allora abbiamo anche pari diritti rispetto ai cittadini di altre confessioni religiose. Non chiediamo nulla più di un trasferimento di questa sede in un posto più ampio e adeguato proponendo corsi utili a tutti e in particolare di educazione civica. Cominciamo a scalfire il muro”.
Dopo il veto al primo immobile individuato, un capannone di 2.000 metri quadri in via Guaralda, è stato individuato l’ex calzaturificio Carabelli in via Pisacane, zona ingresso dell’autostrada. “Siamo già d’accordo con la proprietà e raccogliamo fondi nostri per l’acquisto – continua Stabilini – Chiediamo a tutti di darci una mano. Rispettiamo le leggi e rispettiamo le persone: impedirci di avere una sede idonea dove non entri l’acqua quando piove, dove le persone non siano costrette a restare fuori quando nevica, dove esista uno spazio per aprire la nostra realtà a chi fosse curioso di conoscerla, è un controsenso”.