Non ho mai conosciuto Giorgio Salvetti. Forse scrivere queste righe può sembrare ipocrita, visto che le scrivo per piangere una persona che non conoscevo.
Eppure, in qualche modo l’ho conosciuto adesso, quando una nostra amica in comune mi ha fatto sapere, venerdì mattina, della sua morte. Mi ha mandato il link all’articolo in cui il collettivo del Manifesto lo ricordava.
Sono andato (deformazione professionale) a cercare la sua foto su Facebook. Un ragazzo forte e giovane, che dimostrava sicuramente meno dei suoi quarant’anni passati da poco. Forza. Il suo sguardo emanava forza.
Non lo conoscevo. Ma parlando con la nostra amica, che ancora non si capacita di quello che è accaduto (ho perso un amico importante nella mia vita, ma l’ha portato via una malattia. È stato doloroso, ma di fronte a un suicidio è molto più difficile capire ed accettare), ho iniziato a capire chi fosse. La sua persona, la sua lotta per i propri ideali. E semplicemente per un mondo più giusto. Quello che da ragazzi quasi tutti vogliono. Quello che in pochi, superati i vent’anni, continuano a volere, preda dell’egoismo e dell’ipocrisia che caratterizza l’uomo.
Spendo poche parole per dire che avrei voluto conoscerlo, che questo ragazzo, quest’uomo di dieci anni esatti più grande di me avrebbe potuto insegnarmi molto di questa professione, il giornalismo, che mi ritrovo a fare ormai da tanti anni. Non si smette mai di imparare. E lui sarebbe stato un buon maestro. Di buoni maestri ne ho avuti diversi, nei giornali per i quali scrivo e ho scritto. Sono stato fortunato, perché guardandomi attorno mi rendo conto come questa professione stia perdendo sempre di più il proprio spirito. O meglio, la propria genuinità. Ma questo è un altro discorso.
Penso a Giorgio e al suo gesto estremo. Penso che averlo conosciuto prima mi avrebbe insegnato qualcosa. Penso alle troppe voci silenziose di colleghi che non l’hanno ricordato.
Continuo a pensare. Ma adesso è il momento, per un po’, di stare zitti.
Marco Tavazzi