
Un capello. Da qui parte la caccia al Dna dell’assassino di Lidia Macchi: è esattamente questa la traccia più importante trovata dagli anatomopatologi che stanno analizzando il corpo della studentessa varesina, riesumato dopo 29 anni di riposo nel cimitero di Casbeno.
La bara non si è presentata in condizioni perfette e l’acqua l’ha pesantemente deteriorata negli anni: tuttavia una traccia c’è. E gli inquirenti non hanno fretta: le analisi saranno lunghe (forse anche 4-5 mesi) e minuziose, vista l’altissima difficoltà del caso. Intanto Stefano Binda tace. E i tanti amici di allora, di Lidia come di Stefano, tacciono a loro volta. Nessuno si ricorda, o nessuno vuole ricordare, qualunque dettaglio utile a ricostruire uno dei più drammatici “gialli” italiani.